Disubbidienza

Sul Corriere della Sera è comparso un articolo di Giorgio Montefoschi sull’ubbidienza.

L’autore osserva che – tranne in rari casi: l’esercito, i conventi – non si ubbidisce più. Montefoschi si domanda se c’è ancora qualcuno che decida di sottomettersi alla volontà altrui, giacché questo è il significato di ubbidienza (o obbedienza, termine equipollente in valore e correttezza semantica).

Il primo a ubbidire a un ordine crudele fu Abramo. Sappiamo come andò a finire. Famoso è stato il messaggio – forse presunto – di Garibaldi in cui annunciava di ubbidire a un ordine arrivatogli dal generale Alfonso La Marmora. Altrettanto famosa è l’autodifesa dei criminali di guerra nazisti che affermavano di avere ubbidito a degli ordini.

Lutero invece disobbedì. Lo fece anche don Milani scrivendo una lettera ai cappellani militari “le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove.” (L’obbedienza non è più una virtù).

Saper pronunciare un “No” o un “Si” al momento giusto e nel modo opportuno, può cambiare un destino. Questo l’hanno affermato in tanti con espressioni diverse.

Per un formatore l’ubbidienza è un dubbio di difficile soluzione.

Da una parte c’è la necessità che l’allievo ubbidisca: deve leggere, scrivere, studiare, esercitarsi, provare e riprovare sotto la guida dell’insegnante. Il cervello deve essere esercitato se si vuole arrivare a risultati soddisfacenti. Accettando l’esperienza e i consigli del maestro, percorrendo il sentiero tracciato dalla guida, affidandosi con fiducia alle indicazioni che riceve a scuola, l’allievo potrà raggiungere i propri obiettivi. Tanto gli allievi quanto gli insegnanti sanno purtroppo che di questo rapporto di fiducia è rimasta ben poca cosa.

D’altra parte un allievo deve poter scegliere di disubbidire per formare se stesso. La disubbidienza, quando non è una semplice scelta di comodità, è un’assunzione di responsabilità, un atto spesso creativo che permette nuove scoperte al di là dei percorsi fossilizzati di un sapere rinsecchito, privo di quella vivacità che dovrebbe sempre possedere per essere vivificante e seducente. Un mio allievo sedicenne che non sa nulla di Leopardi, né di Goethe mi ha fatto scoprire le canzoni di Murubutu: chissà quando mai, e se mai, ci sarei arrivato da solo. Se gli avessi imposto di ubbidirmi e studiare che so, Carducci, probabilmente non avrei raggiunto il mio obiettivo e al tempo stesso avrei perso di danneggiato forse per sempre la possibilità che lui si avvicini un giorno, prima o poi, al Carducci.

Montefoschi nel suo articolo scrive: “Se è vero che l’ubbidienza è sparita, è altrettanto vero che l’autorità è sparita”. Corro il rischio di avvitarmi in un vortice senza fine: non si ubbidisce più perché manca l’autorità, ma l’autorità è la capacità di ottenere ubbidienza. In altre parole: è nato prima l’uovo o la gallina? In altre e ulteriori parole: l’indisciplinatezza è da attribuire all’incapacità dell’insegnante o alla mollezza dell’allievo? O alla sua rabbia?

Perché darsi la pena di ubbidire alle regole se vediamo intorno a noi, in qualsiasi direzione guardiamo, esempi di persone che si fanno beffe della legge e dell’educazione?

Montefoschi conclude scrivendo che se un ordine contraddice il comandamento è preferibile ubbidire a Dio, piuttosto che agli uomini, vale a dire che sarebbe meglio scegliere la legge piuttosto che l’ordine impartito dagli uomini. “Altrimenti è consigliabile ubbidire. Per chi è credente e chi non lo è.”

Ma tale chiusura mi lascia perplesso. C’è qualcosa che stona, a mio parere. Mi sembra che manchi un richiamo all’autorevolezza o, usando altre definizioni, al carisma, alla seduzione. Il fantaccino che esegue gli ordini per evitare la punizione non sarà mai consapevole della sua importanza all’interno del suo plotone. Non sarà persuaso dell’utilità dei suoi sforzi. Non aderirà con determinazione allo sforzo comune: si limiterà a fare lo stretto indispensabile per evitare il castigo.

Altrettanto farà lo studente messo alle strette da insegnanti, genitori, educatori e agenzie interinali. Per lui Carducci sarà un bla-bla di disturbo ai testi di Murubutu. Non sarà persuaso che Carducci è uno scalino di quella scala che da Omero è arrivata a Murubutu e che non si fermerà lì, ma procederà oltre.

Adoro le lezioni in cui accadono delle cose. Non le cose che voglio io, le cose che servono a tutti. Non ubbidienza, ma partecipazione. Quando c’è coinvolgimento sento che non solo loro, gli allievi, hanno fatto passi avanti. Li ho fatti anch’io. Anch’io ho imparato qualcosa, che siano le canzoni di Murubutu o la Piccola Maria: “O Piccola Maria,/di versi a te che importa?/Esce la poesia,/o piccola Maria,/quando malinconia/batte del cor la porta…”

Pubblicato da divarioscolastico

Faccio formazione nei CFP e nelle agenzie formative da 15 anni.