Contro lo sconforto

Davanti all’ennesimo fallimento qualsiasi formatore cadrà in almeno un istante di scoramento. Sarà per colpa del millesimo “perche” dopo novecentonovantanove volte in cui hai ripetuto che perché ha sempre, sempre, sempre l’accento. Perche non esiste, non è una parola italiana. E invece eccolo lì, scritto come una sfida, un insulto, con un’indifferenza che non ci si può credere: perche noi siamo qui, perche lei rideva... Non riesco a crederci che mettere un accento sia tanto faticoso, né che sia così difficile ricordarsi di metterlo. Non si tratta di scrivere “ho” oppure “o”: questa è già un’opzione e richiede una qualche grado di competenza e riflessione. Perché, al contrario, non richiede nient’altro che la volontà minima di mettere un accento. Un tratto di 2 millimetri. Ma non c’è niente da fare, l’accento non gli garba e lo si lascia nella penna (così diceva il mio maestro elementare).

Lo sconforto arriva anche quando vanno a fumare in bagno. E si fanno beccare perché l’odore di fumo si sente anche se hai spalancato una vetrata e va sempre a solleticare le narici del formatore più rigido, ma si sente anche perché l’odore si incolla ai vestiti. È sconforto quando si addormentano sul banco e raccontano che tuttavia stavano ascoltando, quando entrano tardi, quando spieghi cento volte che le aliquote dell’IVA sono tre e loro ne utilizzano un’altra, inesistente, (“Però il calcolo l’ho fatto giusto!”)

In questi casi, e in tonnellate di altri, a me viene una specie di dolore dietro agli occhi causato dai dubbi che mi soverchiano e mi fanno mettere in questione la mia capacità di svolgere il mio lavoro e sull’effettiva utilità dell’insegnamento. Credo accada anche all’insegnante più esperto di pensare che il proprio lavoro, l’impegno, le ore di insonnia, il fegato ingrossato, finanche gli studi, la passione per la materia, lo slancio educativo, la benevolenza, insomma tutto, tutto sarà sprecato. Viene meno l’attesa che ogni sforzo piccolo o grande che sia, possa servire a qualcosa. Non vedo cambiamenti, non sono testimone di passi avanti. Mi cade sempre in memoria la scritta dantesca sulla porta dell’inferno: “Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate“.

Ma lasciare tutte le speranze non si può fare, resterebbe solamente lo stipendio. Accade così che leggendo questo libro di Irvin Yalom in cui si cerca di insegnare ad accettare la morte, associo la sua teoria dei cerchi nell’acqua alla speranza che c’è nel lavoro dei formatori. Scrive Yalom: “I cerchi nell’acqua mitigano il dolore della caducità ricordandoci che qualcosa di ciascuno di noi persiste anche se la cosa ci rimarrà ignota o impercettibile.” Insegnamento uno: qualcosa di noi perdura.

Sempre Yalom, “L’immagine dei cerchi nell’acqua si riferisce al fatto che ciascuno di noi crea, spesso senza un intento consapevole e senza rendersene conto, dei cerchi concentrici di influssi che possono a loro volta influenzare gli altri per anni, persino per generazioni. Vale a dire che l’effetto che abbiamo sulle altre persone viene a sua volta passato ad altri, proprio come i cerchi nell’acqua di uno stagno continuano a svilupparsi finché non sono più visibili, anche se il movimento persiste a un livello impercettibile. Insegnamento due: spesso ciò che perdura è invisibile, ma i suoi effetti continuano nel tempo in maniera imprevedibile e impercettibile.

Infine: “I cerchi nell’acqua, come li intendo io, si riferiscono invece all’idea di lasciare dietro di sé qualcosa dell’esperienza della propria vita, un frammento di saggezza, una guida, una virtù, una consolazione che viene trasmessa ad altri, conosciuti o ignoti”. Insegnamento tre: ciò che perdura può essere trasmesso ad altri.

Questo è il mestiere del formatore: generare effetti duraturi non visibili, ma trasmissibili, come cerchi nell’acqua; trasmettere i cerchi che ha ricevuto; tenere viva la memoria; non spezzare la catena.

Pubblicato da divarioscolastico

Faccio formazione nei CFP e nelle agenzie formative da 15 anni.