Mal di denti

Nel Centro di Formazione in cui lavoro esistono corsi per il cosiddetto obbligo scolastico e corsi di altra specie. La maggior parte delle mie ore di lezione sono rivolte ai ragazzi in obbligo scolastico, ma ho alcune ore di insegnamento in classi diverse, con allievi generalmente di qualche anno più vecchi (dai 16 ai 25 anni). In alcuni casi si tratta di dipendenti assunti con il contratto di apprendistato. In altri casi si tratta, di solito, di ragazzi espulsi in vario modo dalla scuola che capiscono – o sono costretti a capire – che la licenza di terza media aiuta ad andare avanti nel mondo dell’istruzione, ma non nel mondo del lavoro. Insomma, la terza media occorre averla superata, ma non è un traguardo: è un passaggio.

Per comodità chiamerò “Blues” quest’ultima tipologia di percorsi formativi. I corsi durano cinque o sei mesi e sono fortemente orientati all’apprendimento di alcune tecniche di base necessarie alle aziende del territorio. Quasi la metà del corso è svolto in stage presso un’azienda.

Chi frequenta i corsi Blues? Come ho già scritto, si tratta in prevalenza di ragazzi scartati, cacciati, espulsi o emarginati dalla scuola. In alcuni casi sono africani, sud-americani o asiatici arrivati da poco in Europa. Gli Italiani non vanno mai oltre il 25 – 30 per cento degli iscritti. Sono maschi e spesso hanno o hanno avuto qualche piccola grana con la legge. Frequentano percorsi Blues perché consigliati dalle Assistenti Sociali, dai Centri per l’Impiego o da una famiglia esasperata che non sa più che pesci prendere. In alcuni casi, rari, frequentano il corso Blues per propria autonoma scelta.

Quando riesco a essere in qualche modo utile, comunicano senza ambiguità sentimenti di gratitudine.

In uno dei corsi Blues c’è un ragazzo marocchino che è stato espulso dalla scuola a causa di un piccolo furto più assimilabile a una bravata che a un’azione di vera e propria illegalità. Un ragazzo simpatico e molto esuberante.

Alcuni giorni fa ho fatto lezione nella sua classe e lui era più calmo del solito. Aveva la testa appoggiata sul banco quando sono entrato in aula e mi ha salutato alzando semplicemente un braccio.

Avendo subito notato la sua inusuale tranquillità gli ho domandato se andasse tutto bene. Lui ha alzato la faccia e mi ha mostrato il gonfiore evidente di una guancia. Un gonfiore dovuto a qualche problema dentale, dunque un gonfiore doloroso. Mi ha domandato se per caso non avessi con me qualche farmaco per alleviare il dolore. Gli ho risposto che no, non l’avevo, ma anche l’avessi avuto, non avrei potuto darglielo perché ci è vietato dare qualsiasi medicinale agli allievi a causa di possibili complicazioni allergiche.

Gli ho detto di telefonare a casa e di farsi venire a prendere. “Mio padre non vuole”. Perché, domando io. “Non si fida di me”. Mandagli una foto della tua faccia. “Non ha lo smartphone. Ma comunque mi ha detto di rimanere qui fino alla fine delle lezioni”. E così ha fatto: è rimasto in aula fino alla fine delle lezioni.

Adesso le considerazioni. La sopportazione del dolore, innanzi a tutte. Non vedo mai adolescenti capaci di sopportare quel dolore senza lamentarsi, senza dare in escandescenza, senza che si rendano ancora più rompiscatole. Sopportano il freddo, il caldo, i pantaloni a metà sedere, il Napapjiri tarocco. Ma il dolore no, non lo sopportano. E, comunque, perché dovrebbero se ci sono alternative?

La seconda considerazione riguarda la severità del padre. Ammiro la sua capacità di accettare la sofferenza del figlio senza venirne ricattato. Mi sono domandato se non fosse una severità un po’ eccessiva, forse poco proficua. Tuttavia, abituato come sono a infondere forza e carattere in ragazzi fragili e remissivi, vedere che non sono l’unico a pensare che la resistenza al dolore sia una palestra di carattere, mi ha leggermente confortato.

Il ragazzo sa che il padre non gli ha perdonato la bravata – questa è la terza considerazione – e non vuole sottrarsi all’azione educativa che ne è conseguita. Forse per orgoglio, forse per riconquistare la fiducia del babbo.

Gli ho fatto i complimenti per come ha affrontato il disagio. Ho visto raramente simili dimostrazioni di carattere. Ma ho visto innumerevoli manifestazioni di fragilità e insofferenza davanti a disagi minimi, sono stato testimone di capricci, di remissioni, di rinunce che odoravano di resa. Raramente vedo atti di lotta, di sacrificio, di resistenza. E raramente vedo genitori che si oppongono e si impongono sui propri figli, genitori che li responsabilizzano obbligandoli a perseverare, a combattere, a tenere duro.

Prevale il sentimento di protezione, di difesa a oltranza. Vedo padri e madri prendersi le mazzate destinate ai figli, pur di preservare intatta la loro favola di Babbo Natale. Come se la fabbricazione di un nido di cotone fosse l’unico metro per misurare l’amore. Mi viene in mente la fatica che fanno i salmoni per tornare alle sorgenti dei fiumi in cui sono nati per accoppiarsi e poi morire: migliaia di chilometri faticosi e pericolosi. Se noi fossimo salmoni, forse non ci saremmo più, sconfitti dal mal di denti.

 

Pubblicato da divarioscolastico

Faccio formazione nei CFP e nelle agenzie formative da 15 anni.