La disciplina

Leggendo sul quotidiano Avvenire questo articolo e vedendo quanto la tematica della disciplina nelle scuole sia presente sui più svariati mezzi di comunicazione, è naturale concordare con quanto afferma Nicoletta Martinelli che “tutti sono vittime. Tutti sono colpevoli. Il professore frustrato che non ha più voglia di insegnare, il genitore dimentico di sé e del suo ruolo educativo, il ragazzo prepotente sicuro dell’impunità”.

Però non è solo e sempre così. Anche questo viene più volte ribadito.

Questa è la storia di Oliver, di Fabio, di Michel. E di tanti altri che non ho direttamente incontrato.

Oliver l’ho conosciuto nel suo quindicesimo anno di età. Aveva già perso la mamma e il papà con cui viveva era in forte difficoltà economica e sociale. Oliver non aveva la licenza media e ci siamo incrociati proprio nel corso di un progetto pensato per aiutare ragazzi nelle sue condizioni (chi peggio, chi meglio) a raggiungerla. Ero il tutor di quel corso. Sono stati mesi complicati: la classe era numerosa e, dal punto di vista dei formatori, molto impegnativa. Lui era un leader naturale e purtroppo era un esempio negativo che si tirava dietro cinque o sei ragazzi che ci davano notevoli grattacapi. C’era in lui un fascino da cane delle praterie che non riusciva, non ce la faceva proprio a resistere all’interno di un’aula. Era il classico canesciolto, il maverick che non sottostà a nessuna regola del branco.

Infatti dopo qualche mese di prigionia scolastica se ne andò. La sua scelta mi fece dispiacere, di più, mi diede una specie di sofferenza causata da dubbi di incapacità, di inadeguatezza: con altri insegnanti, in altre situazioni, sarebbe finita meglio? Avevamo ancora una trentina di allievi come lui da seguire e qualche fallimento era da mettere in conto e lasciarselo alle spalle.

Cercai comunque di non perderlo di vista e per qualche tempo ci riuscii. Venni a sapere che tramite un percorso diverso era riuscito a “licenziarsi” un anno dopo, a 16 anni. Ci vedemmo ancora una o due volte, poi lo persi definitivamente di vista. Non ricordo come, ma qualche anno dopo mi arrivò anche la notizia della morte di suo padre, devastato dalla solitudine e dalla sofferenza. Avevo più volte chiesto a ragazzi che immaginavo potessero conoscerlo di comunicargli di mettersi in contatto con me, ma quotidianità, impegni, dimenticanze mie unite al normale disordine adolescenziale dei miei allievi, avevano impedito ogni ripresa dei contatti. Lasciare un indirizzo email era inutile: loro scrivono brevi messaggi e nient’altro.

Meno di un anno fa un mio allievo di un corso volto all’inserimento lavorativo torna dallo stage e mi parla di Oliver. Ci ha lavorato insieme per qualche settimana. Fatico un po’ anche in questo caso, ma infine ottengo il suo numero di telefono. Lo chiamo. La sua voce è sempre quella, ci vogliono un po’ di mesi, ma riusciamo a incontrarci e bere un bicchiere insieme.

Lavora duro nella carpenteria. Esce di casa alle sei di mattina e torna alle sette di sera perché l’azienda dove lavora è a 15 km da casa sua. Si sposta con i mezzi pubblici, ha la patente ma non si può permettere l’auto. Vive da solo e lo stipendio di apprendista non permette grandi spese.

È diventato più docile, ma non ha perso la determinazione. Non ama il lavoro che sta facendo, ma sa di non avere grandi possibilità al momento. Però non è rassegnato: ha piani per il futuro, ha una ragazza timida e gentile, ha voglia di combattere. Ha anche smesso di fare stupidaggini. Quasi. Ci raccontiamo tante cose, ma quelle che non ci raccontiamo sono di più. Mi restano impresse due frasi. La prima è su suo padre, “troppo buono” secondo lui. “Avrebbe dovuto tirarmi un paio di schiaffoni perché me li meritavo e mi avrebbero aiutato a svegliarmi prima”. La seconda: “A scuola facevo cazzate perché sapevo che potevo farle. Ma ho stupidamente buttato via un sacco di tempo.”

Gli dico che lo recupererà. Ha la pellaccia dei canisciolti e la fame dei cacciatori.

 

Michel me lo sono trovato in una classe seconda che pareva un gran casino. Ragazzi che, presi singolarmente, erano simpatici e svegli, ma messi tutti insieme in un’aula diventavano anarcoidi e pigri come un banco di aringhe, indifferenti a qualsiasi lezione che non avesse un diretto collegamento alla loro esistenza. Michel era minuto, timido, fragile. Il vaso di coccio tra vasi di ferro, di ghisa, di granito. Debolissimo in italiano, sfiduciato in tutte le altre materie. In una cucciolata numerosa sarebbe stato il piccolo che non ce l’avrebbe fatta a crescere perché non c’erano più mammelle a disposizione. Gli altri cuccioli, più forti e più egoisti, lo avrebbero scacciato senza pensarci. La scuola era un evidente calvario per lui. Ricordo le preoccupazioni e la sfiducia dei suoi genitori al primo colloquio: fin dai primi anni di scuola elementare avevano sempre e solo ricevuto indicazioni negative e temevano per il suo futuro. I risultati erano scadenti e anche tra i miei colleghi non c’era chi ne immaginasse un fruttuoso futuro professionale. Michel era il ragazzo buono, ma troppo debole, esile e insicuro, troppo remissivo e privo di grinta. Chissà se mai avrebbe trovato un qualsiasi umilissimo lavoro!

I primi mesi trascorsero nel tentativo, da parte mia, di restituirgli un po’ di serenità. Non credo di avere ottenuto grossi risultati: i suoi compagni di classe erano estenuanti, richiedevano molte attenzioni e causavano in me accesissimi scoppi di ira. Michel era uno dei pochi che non bisognava tenere sotto controllo, quindi gli dedicavo meno cure di quelle che avrebbe necessitato.

A volte però l’istinto di sopravvivenza gioca strane carte. A forza di essere sballottato in ogni angolo del destino Michel aveva sviluppato una capacità che oggi chiamerei resilienza, la capacità di assorbire gli urti senza mai crollare, neanche quando un suo amico aveva giocato sporco con i suoi sentimenti.

Quella che mi pareva timidezza altro non era che una forma estrema di educazione e di rispetto e me ne accorsi solo verso la fine dell’anno scolastico successivo, quando era ormai avviato al raggiungimento (comunque sudato) della qualifica. Avevo provato a simulare la creazione di un’impresa e, una volta finito il progetto, lui aveva manifestato interesse a proseguire. Non solo, aveva anche pensato a progetti collaterali e ulteriori sviluppi. Era irriconoscibile. Da quel bozzolo apparentemente irrilevante era venuta fuori una farfalla sorprendente per capacità e autonomia.

Terminati i tre anni al CFP fu tra i primi a trovare lavoro in un’azienda solida e seria. L’arcobaleno era ormai acceso: dopo un anno di lavoro si è iscritto a una scuola serale per ottenere il diploma, passaggio obbligato per arrivare all’università. Materie umanistiche.

Vorrebbe diventare insegnante di italiano. Gli ultimi consigli che gli ho dato riguardano Dante e Machiavelli.

“Ricordo la tua prima lezione – mi ha detto qualche tempo fa – ci avevi parlato dell’importanza di studiare storia facendo un parallelo con i flirt per le ragazzine. Quella lezione mi ha acceso una lampadina.” Ricordo quella lezione in modo molto vago, non sarei in grado di ripeterla, ma spero che la ripeta Michel a una sua classe, prima o poi.

 

L’ultima storia riguarda Francesco, un ragazzo educato, studioso, apparentemente solido. Aggiungerei un ragazzo molto british nei comportamenti: non perdeva mai le staffe, non dava in escandescenze, non esagerava in nulla, non mentiva, non dimenticava mai libri, quaderni o matite. Di intelligenza rimarchevole, faceva talvolta osservazioni acute durante la lezione, ma spesso, spessissimo si distraeva ed evadeva dall’aula con la fantasia. Nel corso dell’ultimo anno era pure peggiorato, talvolta si addormentava. Accadeva anche, seppure non frequentemente, che leggesse durante le lezioni. Questo mi gettava nell’indecisione. Considero talmente importante la lettura che mai e poi mai vorrei disturbare chi sta leggendo; inoltre un ragazzo di un centro professionale che legga senza esservi costretto è un evento talmente raro, da togliermi la forza per dirgli di smetterla e di rientrare nella lezione. Probabilmente il suo libro è più interessante delle mie lezioni, mi dicevo a mo’ di giustificazione.

Con Francesco non fu facile; nonostante ci fossero tutti gli elementi per filare d’amore e d’accordo, si finiva per litigare. Dissentiva educatamente, controbatteva con pacatezza e quasi con stupore (“sto leggendo, lei ci parla dell’importanza di leggere, e allora dov’è l’errore?”), era solido nelle convinzioni e inossidabile al mio sarcasmo tanto da avere rovesciato l’ordine delle cose a cui ero abituato: sembrava l’unica nota giusta in una sinfonia sbagliata. Si comportava come se stesse seguendo un suo percorso di cui non intendeva riferire a nessuno.

Immaginavo avrebbe proseguito gli studi. Era dotato per arrivare al diploma di maturità in una scuola tecnica. Mi stupì una volta di più quando mi disse che non lo avrebbe fatto. Voleva entrare in un corpo militare. Gli dissi che con la sua qualifica professionale non avrebbe percorso una grande carriera, ma fu l’ennesima osservazione che accolse con indifferenza.

Ottenne la qualifica senza brillare.

Lo rividi un paio di volte e notai più che altro i suoi cambiamenti fisici. Era cresciuto in altezza e in indipendenza: si vedeva dall’abbigliamento e dal portamento, in stile Corto Maltese; lavoricchiava – diceva – si guardava intorno. Appariva uguale a come quando era in aula, inquieto e solido.

L’ho ritrovato nella segreteria del CFP qualche mese fa. Sbrogliava burocrazia per proseguire gli studi. “Finalmente hai deciso di diplomarti” gli ho detto. “Veramente…, vorrei andare all’università” mi ha risposto. Scienze biologiche. Biologia? Mi sarei aspettato una scelta tecnologica, mi aveva di nuovo sorpreso. Gli dissi che l’importante era il ritorno agli studi. “Si, e sono contento di poterglielo dire, perché la colpa è anche sua”.

 

Torno alle parole di Nicoletta Martinelli, “tutti sono vittime. Tutti sono colpevoli”. Però le strade per venirne fuori ci sono, bisogna solo resistere allo sconforto perché si può essere colpevoli nel modo giusto. Forse bisogna rimescolare un po’ le carte delle vittime e dei colpevoli. La maturazione ha tempi inaccessibili che non si possono calcolare. Non si può prevedere come e quando finirà la partita mentre la mano è in corso.

Pubblicato da divarioscolastico

Faccio formazione nei CFP e nelle agenzie formative da 15 anni.